“Uscirai sano”: in un docufilm storie e contraddizioni del manicomio di Girifalco

Uscirai sano”. La targa che campeggiava, con tanto di traduzione latina (Sanus egredieris), sulla facciata del monumentale ospedale psichiatrico di Girifalco, in provincia di Catanzaro, già dalla sua apertura, nel lontano 1881, voleva essere un augurio. In realtà nessuno poteva sapere, al momento in cui varcava la porta dell’imponente struttura, quando e se ne sarebbe mai uscito “sano”: la malattia mentale faceva paura, la si poteva “rinchiudere” dietro ad alte grate e tenere a bada con l’utilizzo di pillole e di elettroshock, ma certo nessuno poteva prevedere quali sviluppi avrebbe avuto nel tempo.

Se al posto di una falsa speranza come “uscirai sano”, su quella targa fosse stato inciso “non sarai solo”, l’animo di chi vi entrava ne sarebbe stato sicuramente rinfrancato: i ricoverati, con storie di solitudine alle spalle, avrebbero quantomeno trovato tra quelle mura – per la maggior parte di loro l’unica casa alla quale aspirare – accoglienza, conforto, una presenza continua. E invece, le contraddizioni di un ospedale – eretto sul colle più alto di Girifalco, luogo ritenuto salubre per l’assenza di “turbinio dell’aria” che poteva condizionare animi già turbati – rimarcavano quelle di un sistema psichiatrico generale che spesso brancolava nel buio.

Tuttavia, l’ospedale psichiatrico godeva di una certa fama per l’applicazione di metodi alternativi. Mentre un’intera ala era destinata ai ricoverati più pericolosi, che non uscivano mai e venivano spesso sottoposti a elettroshock, nella restante parte veniva applicato il metodo sperimentale dell’open door, che consentiva ai ricoverati più tranquilli di mescolarsi con gli abitanti del paese, ritrovandosi al bar, dal barbiere, dal ceramista o anche solo ai margini del campo sportivo dell’ospedale, come spettatori delle partite di calcetto tra i ragazzini “normali”.

Per cento anni le storie dei ricoverati sono state condivise dai girifalcesi, che non hanno esitato a ricorrere alle maniere forti per difendere la struttura quando, nel 1975, si paventava di chiuderla (come poi avvenne a seguito della legge 180). Ed ora le storie dei “matti” rivivono nella ricostruzione documentale, a tratti cinematografica, che l’associazione culturale “Kinema” – i cui giovani fondatori hanno partecipato, in passato, ad iniziative culturali promosse anche dal  CSV di Catanzaro – ha presentato in questi giorni nel capoluogo calabrese, registrando il tutto esaurito nelle varie repliche, in attesa di promuoverlo in tutta Italia.

Da quelle tante storie, raccolte in dodici intensi giorni di riprese, è venuto fuori il racconto di cento anni di malattia mentale. Ed è così che, nel documentario “Uscirai sano”, frutto di un’idea di Barbara Rosanò e Valentina Pellegrino, che ne hanno curato anche la regia, le interviste agli psichiatri Salvatore Inglese e Mario Nicotera hanno messo in luce come la sperimentazione dell’open door e l’insegnamento di alcuni mestieri in cui i ricoverati si rivelarono abilissimi (la sartoria in primo luogo), rendessero l’ospedale di Girifalco degno di menzione nel panorama psichiatrico nazionale.

I malati di mente, a Girifalco, facevano davvero parte della comunità: tutti li chiamavano per nome, li rendevano partecipi delle giornate di festa, stavano al loro gioco quando richiedevano attenzione. Negli annali dell’ospedale è anche riportata, come ha tenuto a precisare Salvatore Ritrovato, a capo del Centro di salute mentale del distretto di Soverato in cui oggi è compreso Girifalco, l’esperienza della gita a mare voluta dal direttore dell’epoca, e vissuta dai pazienti e dal personale medico come un autentico salto nella normalità.

L’archivio dell’Ospedale, poi, ha rivelato incredibili risvolti di interesse scientifico: Amalia Bruni, neurologa di fama internazionale, nel consultare le cartelle cliniche ormai ingiallite dei ricoverati per approfondire i suoi studi sulle demenze, ha scoperto che in diversi casi, a partire dal 1904, la descrizione dei sintomi dei pazienti era perfettamente in linea con quella dell’Alzheimer, almeno quattro anni prima che la malattia venisse rivelata al mondo.

Alcune delle storie di Girifalco hanno addirittura ispirato il cantante Simone Cristicchi per la sua famosa “Ti regalerò una rosa”. Per molti dei ricoverati, la comparsa di un disturbo mentale faceva seguito alla solitudine, ad un grave stato di povertà in famiglia o a un lutto devastante: per altri, invece, l’evocata “pazzia” era soltanto il mezzo a cui si appellavano i familiari per trovare soluzioni definitive, quali il ricovero, ad un “problema”.

Non tutti malati di mente, quindi, ma scomodi o soli al mondo: non è un caso che la testimonianza più toccante di tutto il film sia proprio quella di un uomo che della sua infanzia e giovinezza non ricorda nulla, se non il freddo, il duro lavoro e la sola sigaretta (già ad otto anni di età) come premio. Nessun giocattolo per lui, nessun libro di scuola, nessuna carezza. Per trentasei anni ha vissuto al “manicomio”: ne è uscito con i capelli bianchi, più vecchio della sua reale età, con il desiderio di una macchinina con cui giocare ed il rammarico del tempo perso. E tutto perché da piccolo era troppo vivace. (Benedetta Garofalo – CSV Catanzaro per Agenzia Redattore Sociale)