Giustizia, punibili a 16 anni?

carcere minorile

ROMA – “L’ho detto ieri da Napoli e lo ribadisco con convinzione. Bisogna, a mio avviso, ridurre l’età punibile a 16 anni”. Il Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, rilancia con forza, intervenendo questa mattina ad Agorà su Rai3, la proposta che in meno di 24 ore ha già scatenato reazioni a catena. E mentre i sostenitori e gli oppositori affilano motivazioni e si sfidano mettendo in campo dati e statistiche, anche dagli Stati generali sull’esecuzione penale arriva un’analisi lucida e asciutta sul delicatissimo tema, con tre indicazioni finali: sradicare il minore dal proprio ambiente, puntare sulle sue notevoli capacità intellettive per costruire nuovi percorsi in grado di consentire il suo pieno recupero e garantire la presenza costante di uno psicologo all’interno dell’equipe. Non per niente, gli esperti riuniti intorno al Tavolo 5 (che sì è occupato di “Minori autori di reato”) hanno dedicato ai contesti di criminalità organizzata un paragrafo a parte, che hanno titolatoproprio “Trattamento dei minorenni inseriti in contesti di criminalità organizzata”.

“Nelle aree del nostro Paese caratterizzate dalla presenza della criminalità organizzata  – hanno scritto gli esperti coordinati dal prof. Franco Della Casa – il possibile rapporto tra quest’ultima e la criminalità minorile deve essere sempre tenuto presente, anche quando non è certificato a livello processuale. Può accadere infatti che, in presenza di una criminalità ‘forte’ com’è per definizione quella organizzata, le varie forme di delinquenza comune conducano la loro esistenza con la tolleranza e il consenso di quella organizzata. Ma c’è un aspetto più specifico da sottolineare. Nelle zone con forte presenza della criminalità organizzata, molto spesso la delinquenza minorile è riconducibile all’impossibilità, per il minore, di acquisire modelli di confronto diversi da quelli che sono propri del contesto socio-familiare di appartenenza. Il che “spiazza” il nostro sistema di giustizia minorile, che si basa invece sul presupposto di un ruolo positivo della famiglia, ritenuta in grado di fornire la necessaria assistenza psicologica ed affettiva al suo giovane componente che si trova coinvolto in una vicenda giudiziaria o penitenziaria. In questi casi, la commissione del reato e la stessa condanna diventano allora, paradossalmente, l’occasione per una presa in carico del minore da parte del sistema che deve tentare di sottrarlo a questi contesti familiari ad alto rischio”.

Parola d’ordine: allontanare il minore dal proprio contesto. Alla luce delle considerazioni sulle cattive influenze del nucleo familiare, gli esperti del Tavolo ritengono che in questo caso specifico si debba disattendere il principio di territorialità dell’esecuzione della pena, “ferma restando la necessaria autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria”.

Tre proposte.Infine le proposte. La prima è quella di fornire a questo tipo di detenuti un adeguato sostegno psicologico, dal momento che li si orienta verso modelli di vita contrari a quelli trasmessi dalla loro famiglia. Poi garantire una presenza non occasionale dello psicologo all’interno dell’équipe. Infine, fare leva sulle notevoli risorse intellettive proprie di questo genere di minori “per costruire percorsi tanto più interessanti e coinvolgenti quanto più inesplorati da parte del giovane condannato”.
Questa terza indicazione “ha come suo immediato retroterra le informazioni ricevute da magistrati minorili che hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con i minori ai quali sono dedicate queste riflessioni: è un dato empirico ricorrente la constatazione che nella maggior parte dei casi questi giovani sono dotati di notevoli risorse intellettive, che se non adeguatamente instradate possono essere utilizzate per assumere una leadership all’interno della struttura detentiva”. (Redattore Sociale)

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