Per il 30% dei malati cronici la diagnosi arriva dopo 10 anni

Oltre la metà di essi denuncia tempi lunghi di attesa per gli esami e le visite di controllo. Lo dice il XX Rapporto sulle politiche della cronicità di Cittadinanzattiva

Più di un cittadino su tre con patologia cronica ha atteso oltre dieci anni per arrivare alla diagnosi e uno su quattro fra chi soffre di una malattia rara deve spostarsi dal proprio luogo di residenza per curarsi. Le liste di attesa, ancora allungate dalla crisi pandemica, pesano sulla salute dei cittadini affetti da queste patologie, in particolare oltre la metà di essi denuncia tempi lunghi di attesa per gli esami diagnostici e per le visite di controllo. E resta la chimera del supporto psicologico che due terzi dei pazienti devono pagare di tasca propria. Sono questi alcuni dei dati che emergono dal XX Rapporto sulle politiche della cronicità, presentato oggi dal CnAMC, ossia il Coordinamento nazionale delle circa 100 associazioni di malati cronici e rari, di Cittadinanzattiva.

Secondo i dati ISTAT 2022, 4 italiani su 10 soffrono di almeno una malattia cronica e 2 su 10 di due o più malattie croniche. Per quanto riguarda le malattie rare, in Europa si stima che le persone affette da tali patologie siano circa 20-30 milioni, in Italia i malati rari sarebbero circa 2 milioni, moltissimi dei quali in età pediatrica.

Il Rapporto nasce dalle interviste a 871 pazienti ed a 86 presidenti di altrettante associazioni di patologia cronica o rara. Il titolo di questa ventesima edizione è ‘Fermi al Piano’: si tratta del Piano nazionale della cronicità, di cui quasi il 36% delle associazioni denuncia la mancata attuazione e il 15% l’attuazione soltanto in alcuni territori. Le regioni che prevedono una presa in carico in base a quanto previsto dal Piano sono nell’ordine: Lombardia e Veneto (per il 56% dei rispondenti); Emilia-Romagna (50%); Piemonte e Toscana (47%); Lazio (43%); Puglia (31%); Liguria (25%); Marche (22%); Campania (19%); Abruzzo, Sardegna, Sicilia e Umbria (9%); Basilicata, Calabria, Molise (3%).

La mancata attuazione del Piano si riverbera sull’assenza dei cosiddetti PDTA, ossia i Percorsi diagnostici terapeutici assistenziali che disegnano il modello di cure più adeguato e personalizzato sulla base delle esigenze delle persone: una associazione su tre denuncia l’assenza di questi percorsi. A livello territoriale, le regioni che sembrano più avanti in questo modello di presa in carico sono la Lombardia (lo afferma il 70% delle associazioni); la Toscana, il Veneto, l’Emilia-Romagna (per oltre il 52%); il Lazio (quasi 48%); il Piemonte e la Puglia (35%); le Marche (30%); l’Abruzzo (26%); la Campania (22%); la Sicilia (17%); il Molise e Umbria (13%), la Basilicata e la Calabria (circa 9%).

LA SALUTE NON È UGUALE PER TUTTI

A denunciarlo le associazioni che hanno partecipato al XX Rapporto sulle politiche della cronicità. Le disuguaglianze fra i territori si annidano, a detta dell’oltre l’80% di esse, nella modalità di gestione delle prenotazioni e dei tempi di attesa, per il 78,6% nella garanzia di un sostegno psicologico e nelle differenze nel riconoscimento di invalidità, accompagnamento ed handicap; per circa il 76% nella presenza o meno di Centri specializzati e di Rete; per il 73% nella diffusione a macchia di leopardo dei servizi di telemedicina, teleconsulto, monitoraggio online e, nella stessa percentuale, nella presenza di percorsi di cura o PDTA; per il 50% nell’accesso all’innovazione.

“Per porre un freno alle disuguaglianze sanitarie che attraversano il nostro Paese in maniera così importante, abbiamo un decreto da accelerare e una riforma da frenare: nel primo caso ci riferiamo al Decreto Tariffe, del quale da mesi chiediamo con urgenza l’approvazione al fine di “sbloccare” i Livelli essenziali di assistenza, fermi al 2017; nel secondo alla riforma dell’autonomia differenziata che – per salvaguardare la tenuta del SSN e uguali diritti per tutti i cittadini – richiederebbe, come del resto previsto dalla Costituzione, adeguati contrappesi preventivi, in mancanza dei quali è impossibile anche solo parlarne’ dichiara Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva.

MALATI CRONICI E RARI: IL PROBLEMA DELLE DIAGNOSI TARDIVE E DELLE CURE FUORI REGIONE

Tra i cittadini intervistati, oltre il 26% è in cura per una patologia (cronica o rara) diagnosticata da più di 20 anni; il 19% da 11 a 20 e da 6 a 11 anni, il 18,5% da 3 a 5 anni. Più di un paziente su tre ha atteso oltre 10 anni dalla comparsa dei primi sintomi alla diagnosi e quasi uno su cinque da 2 a 10 anni. I motivi dei ritardi nella diagnosi sono, per due pazienti su tre, la scarsa conoscenza della patologia da parte del medico di famiglia o del pediatra, per oltre la metà la sottovalutazione dei sintomi, per il 45%circa la mancanza di personale specializzato sul territorio, per quasi il 26% le liste di attesa.

Solo il 39% di coloro che ha una patologia rara è in cura presso un centro che parte della rete delle malattie rare, istituita nel 2001; il 28% non sa se il centro fa parte o meno di una rete di malattie rare; il 18% dice che non ne fa parte e il 14% non è in cura presso nessun centro. Facendo due conti più del 60% dei malati rari non riceve cure standardizzate sul territorio e un ulteriore 17,5% si affida ad un centro privato. Inoltre, circa il 27% è costretto a spostarsi presso un’altra regione: il 38% dichiara di migrare per ricevere le cure di cui ha bisogno verso la Lombardia, il 14% verso il Lazio, la Liguria e la Toscana, il 9,5% verso l’Emilia-Romagna, circa il 5% verso Campania e Veneto.

LISTE DI ATTESA E COSTI: PER COSA SI ATTENDE, PER COSA SI PAGA DI TASCA PROPRIA

Uno degli aspetti che risulta essere più problematico per i pazienti con patologia cronica e rara è quello della difficoltà di accesso a causa della presenza di lunghe liste di attesa. Gli ambiti maggiormente segnalati come critici riguardano per circa il 60% l’accesso alle prime visite specialistiche e agli esami diagnostici; per il 55% le visite di controllo/follow-up; per circa il 43% i lunghi tempi per il riconoscimento della invalidità civile o accompagnamento. vEd è proprio la necessità di fare esami e visite in tempi giusti a determinare costi privati per i cittadini: lo segnala il 67% di essi, preceduto dal supporto psicologico dichiarato come ambito di costo privato dal 76% circa dei pazienti. Si paga di tasca propria anche per la prevenzione terziaria e parafarmaci (51%), per l’adattamento dell’abitazione alle esigenze di cura (33%), per l’acquisto di farmaci necessari e non rimborsati dal Ssn (37%), per protesi ed ausili non riconosciuti o insufficienti (circa 36%); per la retta delle strutture residenziali e/o semiresidenziali (circa il 19%).

SANITÀ DIGITALE: FONDI IN ARRIVO PER SUPERARE I GAP

Gli investimenti introdotti dal PNRR per la digitalizzazione della Sanità prevedono fondi per due miliardi e 800mila euro. La telemedicina, secondo le previsioni della Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, arriverà così a essere attivata in 280 ospedali entro il 2025, e servirà una platea di 200mila pazienti, mentre l’85% dei medici di famiglia potrà contare sul collegamento al fascicolo sanitario elettronico.

Dal Rapporto emerge che negli ultimi 12 mesi circa l’11% dei pazienti è stato coinvolto in programmi di telemedicina o e-health in particolare sui trattamenti, la prevenzione, la diagnosi e l’aderenza alle terapie. Passando al fascicolo sanitario elettronico, il 53% dei rispondenti lo ha attivato e il 72% ha utilizzato spesso la ricetta dematerializzata (raramente il 16,6%, mai l’11%).

PNRR E CASE DELLE COMUNITÀ: PUNTI DI FORZA E DI DEBOLEZZA DAL PUNTO DI VISTA DEI PAZIENTI

Visto l’impatto che il Pnrr è destinato ad avere sulla gestione della cronicità, Cittadinanzattiva ha indagato sul livello di coinvolgimento delle associazioni: soltanto poco più dell’11% dei Presidenti afferma che l’associazione è stata formalmente coinvolta dalle istituzioni Regionali e/o Aziendali in specifiche progettualità derivanti dal Piano nel territorio regionale e appena l’1,4% nella definizione, programmazione o implementazione delle Case della Comunità.

Dal loro punto di vista, il modello delle Case della Comunità è funzionale a supporto della gestione delle cronicità, per la presenza in un unico luogo di più professionisti sanitari e di avere servizi disponibili h12 e 7 giorni su 7, per la possibilità di semplificare il percorso di cura e di favorire il coordinamento degli interventi sanitari e sociosanitari. Per contro gli aspetti critici che è necessario tenere sotto controllo sono rappresentati dalla loro collocazione che dovrebbe essere garanzia di un’effettiva prossimità, dalla possibilità di generare lunghe attese a causa della concentrazione dei servizi in un unico luogo, e dal rischio che, a causa del lavoro in équipe dei medici di medicina generale, venga meno il rapporto di fiducia con il paziente. In generale, senza medici, infermieri e personale sociosanitario e senza la formazione degli stessi, le nuove Case di comunità sono destinate a restare un contenitore vuoto. (Agenzia DIRE)