Profugo sgambettato a Torino: “Mai stato terrorista”

TORINO – Osama Abdul Mohsen è il profugo divenuto famoso per lo sgambetto dalla reporter ungherese. Arrivato due giorni fa a Torino per ritirare il premio sportivo “Laudi e Bontempi”, ha incontrato il sindaco Fassino; con lui, i figli Ziad (6 anni) e Mohamad (19 anni), che dal Primo cittadino hanno ricevuto una busta piena di gadget delle due squadre locali. Ora vive a Madrid, dove ha ripreso ad allenare nella prima serie calcistica; a Torino si è difeso dalle accuse dei media “mai stato col jihad: è la vendetta del regime, che cerca di screditarmi”.

Osama Abdul Mohsen premiato a Torino

Lei è originario di Deir ez Zor, che prima di venire conquistata dello Stato Islamico era stata una delle città più colpite dalla repressione di regime. Per quel che ha potuto vedere, da cosa fuggono davvero i siriani?
“Fuggiamo dalla guerra, e poco importa chi è a portarcela in casa. Le bombe non fanno distinzione di credo o colore politico: oggi è Daesh a opprimerci, ed è loro che temo, perché molti amici e parenti sono ancora bloccati in città. Ma non stavamo certo meglio quando Assad ci bersagliava con i barili bomba. Entrambi hanno fatto migliaia di morti, non può esistere male minore in questo senso”.

Sembra quasi che la storia si diverta a inseguirla: proprio mentre ricomincia ad allenare in Spagna, negli stadi europei si diffonde l’allerta terrorismo. Crede sia giusto sospendere le partite, come suggeriscono alcuni?
“La paura è comprensibile, ma bisogna tener presente che è proprio questo che cercano i terroristi. Per ora si tratta di episodi isolati e circoscritti: la sicurezza resta la priorità; ma è necessario non alimentare il panico, perché negli stadi è altrettanto pericoloso”.

Per la prima volta la nazionale siriana è a un passo dalla qualificazione ai mondiali. Anche su questo, però, il paese si è diviso: la squadra è considerata un’estensione del regime, tanto che i giocatori esuli in Libano hanno fondato una “nazionale libera”. Lei come vede questa balcanizzazione del calcio?
“Le squadre esuli sono due, in realtà: la seconda si trova in Turchia, e pare stiano valutando l’eventualità di fondersi in un’unica formazione. Oggi è a loro che va la mia simpatia: sport e politica non dovrebbero mai andare a braccetto; ma in Siria non è mai stato così. La nazionale ha apertamente sostenuto il regime, mentre migliaia di tifosi venivano massacrati ogni giorno dalle bombe e dai miliziani di Assad. Inoltre, nello sport siriano c’è moltissima corruzione, e questo non aiuta di certo. Alla luce di tutto questo, spero che il sostegno per le squadre ‘alternative’ cresca ancora: non è bello vivere in un paese diviso, ma sarebbe un ulteriore segnale della voglia di cambiamento”.

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Lo sgambetto

Tra le accuse che le sono state rivolte, c’è quella di aver avuto un ruolo nel massacro del 2004 nella città curda di Qamishlo, scoppiato in seguito a un match calcistico che vedeva la sua squadra in campo contro la formazione locale. Cosa accadde davvero quel giorno?
“Io sono stato accusato di aver preso parte all’uccisione di decine di curdi, in quella giornata. Ma è ampiamente noto che fu la polizia ad aprire il fuoco su di loro, soffocando la rivolta nel sangue. Per il resto, accadde quello che purtroppo capita spesso negli stadi di tutto il mondo: i tifosi iniziarono a provocarsi, mettendo in mezzo la politica; e quando esplosero le violenze, il regime ne approfittò per colpire i curdi, con i quali la conflittualità era molto grande in quei giorni (proprio allora il vicino Kurdistan iracheno raggiungeva l’autonomia, dando origine a una serie di rivendicazioni anche da parte siriana, ndr). Credo sia per questo motivo che anche i curdi abbiano rilanciato le accuse contro di me: di fatto, però, io ero in panchina con i miei giocatori, e non in strada con la polizia. E al di là delle rivalità tra le tifoserie, i rapporti tra le nostre squadre furono sempre cordiali”.

Le sono state rivolte accuse molto pesanti: lei ha sempre negato, e dalla sua parte si sono schierate anche grosse testate come il Times. Quelle voci però continuano a circolare: che effetto stanno avendo sulla sua vita?
“La verità è che la cosa non mi ha sorpreso più di tanto. Non ho mai nascosto le mie antipatie per Assad, ed è per questo che nel 2011 diedi le dimissioni: a settembre, quando il mio volto è finito sui media, mi aspettavo che il regime cercasse di infangarmi in qualche modo. È così che succede da noi. L’importante, per ora, è aver chiarito la vicenda con lo staff della squadra, e con quanti mi hanno aiutato qui in Europa. Per il resto, la notizia sta iniziando a sgonfiarsi: un paio di settimane fa, Jasz Sàndor, il giornalista ungherese che per primo in Europa aveva rilanciato quelle accuse, mi ha chiesto pubblicamente scusa in un lungo editoriale sul suo giornale. Ma ho rischiato di venire espulso per questa vicenda, e ovviamente la cosa non mi fa piacere: mia moglie è bloccata in Turchia, e sto cercando di portarla qui da noi. Se mi buttassero fuori saremmo tutti di nuovo nei guai” (RS)