Carcere: da Bari un progetto sperimentale contro pedofilia e violenza sessuale

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BARI – Combattere la pedofilia e la violenza sessuale sulle donne non solo attraverso la prevenzione ma anche cercando di intervenire sugli autori di reato con un metodo scientifico che contribuisca ad abbattere i tassi di recidiva. In particolare: individuando i profili psicologici e prevenendo recidive con il potenziamento della capacità di interazione interpersonale e l’integrazione socio-lavorativa dei detenuti autori di violenza.
Si chiama “Rompere il silenzio” ed è il progetto sperimentale attuato nella Casa circondariale di Bari e nella sezione di reclusione di Altamura, con piani di intervento locali della Città Metropolitana per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza contro le donne e i minori.

Presentato questa mattina all’Università degli studi Aldo Moro, nel corso del convegno coordinato da Tommaso Minervini, responsabile dell’area educativa dell’istituto di pena pugliese, il progetto è stato finanziato dall’ex provincia di Bari (Città Metropolitana) con l’obiettivo “di attuare un servizio nelle carceri e nel territorio di una presa in carico specialistica del maltrattante”.
Dodici mesi di informazioni, valutazioni psicodiagnostiche, colloqui individuali, gruppi psico-educazionali e attivazione delle competenze lavorative sono serviti per arrivare a individuare i profili dei detenuti sex offender (autori di reati legati alla sfera sessuale), conoscerli meglio durante la loro detenzione, cercando di assicurare un approccio integrato e globale.

“Siamo partiti  – spiega la direttrice del carcere di Bari, Lidia De Leonardis – dal concetto che per impostare un trattamento rieducativo è necessario attivare un intervento specialistico e individualizzato, con un approccio multidisciplinare. La ricerca sperimentale è stata effettuata per i detenuti sex offender giudicabili (a Bari) e per i condannati ristretti nelle sezioni a custodia attenuata di Altamura. Il lavoro, su un campione di 70 persone,  è durato più di un anno e mezzo ed ha coinvolto equipe composte da professionisti specializzati in questo tipo di reati: psicologo-psicoterapeuta, psicodiagnosta, assistente sociale, educatore, esperto della comunicazione”.

“La riflessione da cui parte il progetto – si legge nel report conclusivo – è che esistono misure che sostengono le vittime di violenza, ma non c’è, ad oggi, una presa in carico globale del maltrattante. Che individuo si restituisce al territorio dopo il carcere? Quali comportamenti saranno messi in atto da parte di un maltrattante che rientra nel contesto di provenienza? ‘Rompere il silenzio’ intende fornire una risposta a queste domande, sperimentando un modello possibile di trattamento in carcere di tipo psicoterapeutico e psicosociale, individuale e in gruppo, utile a favorire l’acquisizione di consapevolezza del reato, promuovere processi di cambiamento e che ambisca a essere efficace nella prevenzione della recidiva”.

L’attività sperimentale, inserita nel progetto d’Istituto della Casa circondariale di Bari, aveva preso il via con la convenzione sottoscritta a gennaio 2015 con la cooperativa Comunità S.Francesco e la cooperativa Crisi e  aveva tra gli obiettivi principali quello di definire i profili psicologici e prevenire eventuali recidive attraverso il potenziamento della capacità di interazione interpersonale e l’integrazione socio-lavorativa dei detenuti autori di violenza.
“Si tratta – sottolinea Lidia De Leonardis – di una delle prime sperimentazioni attuate in Italia in ambito penitenziario. L’approccio poggia le fondamenta nella collaborazione con enti e istituzione del territorio affinché si arrivi a un trattamento specializzato: è necessario distinguere i detenuti non solo per tipologia di reato ma come persone e garantire loro un trattamento scientifico. Occorre intercettare il disagio, il bisogno e la patologia attraverso figure altamente competenti”.

I risultati del progetto. “Per i condannati – racconta la direttrice del carcere di Bari – sembrano esserci in equipe di osservazione buone risposte di rivisitazione in chiave critica del reato. E’ necessario lavorare sulla differenza tra aspetto clinico e trattamento, distinguendo le situazioni compulsive o di natura clinica. In ogni caso dobbiamo intercettare, dove c’è, un problema non solo psichico ma anche psichiatrico.
Lo studio offre un ampio spettro di profili criminali: da chi presenta un disturbo psichiatrico, alla persone che hanno un disordine di condotta, a chi è antisociale: tutta una serie di sfaccettature che vanno analizzate. L’approccio è molto importante: prima c’è la conoscenza dell’individuo, del disturbo, della patologia, fatta con misuratori sia psichiatrici che psicologici e con strumenti di indagine tra i più innovativi. Poi l’intervento dello psicologo e dello psicoterapeuta che sono molto importanti per indurre il soggetto al riconoscimento del proprio reato, ma anche per una presa di consapevolezza del dolore e della sofferenza che si è inferta alla vittima. La risposta è stata vincente ed ha registrato una forma di accrescimento e di empatia nei confronti della vittima”.

“Gli attuali trattamenti – conclude la direttrice – non sono sufficienti, sono superati. Molte volte ciò che manca nelle carceri per quanto riguarda parte del trattamento penitenziario è la figura di esperti di determinati settori: professionisti che dovrebbero affiancare l’operatore penitenziario. Oggi siamo arrivati a questi risultati proprio perché sono state convogliate associazioni specializzate. Non bisogna aprire solo a esperienze occasionali ma trovare il modo di far partecipare al trattamento l’esterno qualificato”.
Un auspicio?  “Valorizzare le buone prassi che devono trasformarsi in collaborazioni costanti: parte del trattamento deve essere assunta dagli enti locali attraverso i Piani di zona. La programmazione deve coinvolgere tutta la società che non solo si deve occupare della prevenzione ma anche della cura e del trattamento di queste persone, insieme a noi”. (Agenzia Redattore Sociale)